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I temi sociali, le mele, la pornografia, la malavita, l’agricoltura, il clavicembalo, il colore giallo: gli spostamenti di Carlo Sperduti
Scritture Aperte 2024-25

I temi sociali, le mele, la pornografia, la malavita, l’agricoltura, il clavicembalo, il colore giallo: gli spostamenti di Carlo Sperduti

Come sei arrivato a scrivere questo libro di prose brevi? Apparizioni, ispirazioni, intenzioni?

Ci sono arrivato dopo una pausa dalla scrittura. E in parte ci sono tornato.
Procedendo con ordine: dalla metà del 2020 all’ottobre del 2021 circa, dopo aver scritto un libro che si intitola Deriva (pubblicato nel 2021 da pièdimosca edizioni), non ho scritto nulla o quasi, e questa cosa è avvenuta in maniera spontanea.
A posteriori, posso individuare due cause:
1) l’aver avvertito che con quel libro era cambiato qualcosa nel mio modo di approcciarmi alla scrittura (o meglio che stava cambiando qualcosa);
2) un senso sempre crescente di delusione, stanchezza, insofferenza nei confronti di certe abitudini del sistema editoriale italiano (sia mainstream che indipendente: purtroppo e spesso il sistema è lo stesso), per cui alcune direzioni (in realtà la maggior parte a eccezione delle poche commercialmente percorribili, direi non più di quattro o cinque) sono sistematicamente escluse: alludo non solo ai miei testi (si trattasse di questo il problema non si porrebbe o si porrebbe, in altri termini, appunto solo per me) ma a intere aree di scritture a vario titolo sperimentali e di ricerca che, mercato a parte, in Italia mi sembrano oggi particolarmente vivaci e dunque, a maggior ragione, ingiustamente trascurate dagli addetti ai lavori (stampa, critica, librerie, distribuzione) e di conseguenza dal pubblico, se escludiamo alcune anguste nicchie.
Avevo, insomma, un po’ di cose da mettere a fuoco, e non nascondo che a distanza di non pochi libri e non pochi anni dalle mie prime pubblicazioni, il perdurare di questa situazione, sia generale che particolare, mi aveva fiaccato: motivazioni, energie e idee erano quasi esaurite.
Sennonché qualcosa (?) è scattato verso la fine del 2021 (l’insonnia ha fatto anche cose buone) e ho deciso, autosorprendendomi, di rinnovare i miei giochi di linguaggio: non immettendomi in uno di quei canali già tracciati cui ho fatto riferimento (sarebbe stato invecchiare di colpo e male) ma al contrario deragliando in maniera ancora più decisa (per fallire meglio, probabilmente). Ho quindi recuperato, rinsaldato ma anche radicalmente ripensato il mio rapporto di vecchia data con le forme brevi e brevissime — che proviene per me dall’incrocio, da giovanissimo lettore, della tradizione ispanoamericana con quella europea, e in particolar modo francese e italiana — iniettandovi una considerevole dose di scritture di ricerca o altre, come preferisco chiamarle per non inciampare in una locuzione che a volte rischia, pur non essendolo, di essere percepita come chiusa in alcune esperienze già date, per quanto relativamente recenti. Tutto ciò continuando a leggere e assorbire con gusto antinormativo qualunque tipo di libro (negli ultimi anni leggo compulsivamente, costantemente e — anche — a caso e distrattamente, e — anche — libri che non mi piacciono per niente, che valgono tanto quanto le mie predilezioni). Il risultato, che nei materiali inediti successivi a Spostamenti si fa ancora più evidente, è stato quello di allontanarmi dalla vecchia casa della narrativa per dirigermi verso una scrittura che si pone sempre meno il problema dell’appartenenza a uno o più generi, o della casa.
Se in Spostamenti rimane forte l’impressione della narrazione, è anche vero che le narrazioni sono al servizio della scrittura e, almeno per me, non strettamente necessarie, quando non del tutto pretestuose; oppure sono narrazioni simulate o che tendono a negarsi nel loro stesso farsi, mettendosi in scacco, per esempio in Come un dovere. Infine, in alcune prose — penso a Treni di mezzo, Glossa, Lezione o, in altro senso, alla stessa serie Spostamenti che incornicia le sezioni, non altrimenti dichiarate — la narrazione è assente o estremamente rarefatta. Ho anche voluto riposizionare e/o riscrivere alcune mie vecchie microfinzioni, inizialmente pubblicate da Gorilla Sapiens Edizioni, in un’ottica di abbandono dell’idea di libro come punto fermo o cosa chiusa. Rimescolare i materiali, connettendoli in altro modo, ricontestualizzandoli, mi pare una forma di scrittura interessante.
Credo che quei recuperi, per esempio, stiano meglio in Spostamenti che nel loro volume di origine, e non è detto che quegli stessi testi, così come altri, non saranno ancora ricollocati. Mi piacerebbe, in un ipotetico futuro, che non si potesse propriamente dire che un mio libro esiste.

Hai fatto ricorso a meccanismi, procedimenti, giochi letterari?

In alcuni casi sì: googlism, serie di Fibonacci, permutazioni, anagrammi, citazionismi più o meno nascosti, interpolazioni tra più stringhe di testo/realtà/finzione, pattern metrici utilizzati in contesti narrativi, contraintes varie ed eventuali…
In alcuni casi no: ho iniziato ad avvertire tutti questi meccanismi, e altri ancora, come esausti. Quindi — in parte era accaduto in Deriva e in qualche racconto del periodo immediatamente precedente — ne ho inventati altri oppure ho allentato la presa sul testo (non saprei come dirlo in altro modo), lasciandolo in balia di una sorta di pensiero laterale linguisticamente orientato che mi ha fatto scoprire alcune delle prose che preferisco: quelle che a distanza — anche breve — comprendo di meno e continuo — forse proprio per questo — a preferire.

A cosa si riferiscono gli spostamenti del titolo? Qual è la traiettoria, quali forze (o “quali forse”) li muovono?

Gli Spostamenti propriamente intesi, cioè i testi nel libro che portano quello specifico titolo, sono disinneschi di parole italiane “spostate” in un’altra lingua: nella fattispecie le parole io, tu, questo, quello, altro, date in pasto al sito googlism.com che, percependole in inglese, ha fornito delle definizioni in quella lingua per quelle stesse grafie, portando dunque i significanti — e i relativi significati — da tutt’altra parte. Non ho fatto altro che selezionare alcuni dei risultati, riportarli in italiano (con un traduttore automatico) e poi ordinarli attraverso un procedimento formale fisso calando sopra le serie di definizioni giustapposte una sequenza interpuntiva obbligata, ogni volta diversa. Il facile (?) bersaglio del primo testo è quel vecchio io lirico che ancora imperversa in tanta letteratura — in versi e in prosa — contemporanea, e che viene emulato — o messo direttamente in campo — in qualche testo della prima sezione.
Più in generale, ho voluto dare il titolo Spostamenti all’intero libro per la varietà di soluzioni testuali — ne ho accennate alcune — e perché sono convinto che la non fissità, la fluidità e il rifiuto di definizioni e identità univoche, letterarie e non, sia le vie (rigorosamente al plurale) per utilizzare al meglio il nostro pensiero, gli strumenti della nostra attuale tecnologia, l’approccio all’altro e, nello specifico, l’approccio al testo: inteso nel senso più ampio.
Tutto il contrario di ciò che accade, per esempio, nel mercato di cui parlavo poco fa, in cui spesso le bandiere dell’indipendenza, dell’inclusività, della bibliodiversità, della sperimentazione e dell’alterità vengono spiegate per distrarre dai venti di segno opposto che le muovono. I forse sono tutti.

Come hai organizzato i testi nella raccolta?

Ho tentato di dare un senso centrifugo al libro, a partire da quell’io-centro che lo inaugura e allargando man mano il raggio delle possibili azioni: si passa dunque dall’io (prose in prima persona) al tu (seconda persona) e poi si cambia criterio mettendo in atto prima situazioni descrizioni vicende altamente improbabili ma fisicamente possibili (?) (questo), poi abbandonando ogni verosimiglianza o realtà fisica a noi nota (quello); infine si rimanda, con Altro è, l’ultimo testo in corsivo della serie Spostamenti, a una possibile e ulteriore sezione assente, che sta fuori dal libro e dai libri, o che sta in un altro libro, o in più libri, o non sta. Mi sono inoltre divertito a creare a posteriori, basandomi su occorrenze lessicali o su affinità stilistiche o tematiche, dei ganci tra i testi che non esistevano fino al momento in cui ho forzato le relazioni precedente/successivo: sono molto interessato alle finzioni di senso e alle apparizioni inaspettate di senso: è quel che accade, in altro modo, col procedimento adottato per la serie Spostamenti.
Ci tengo a sottolineare che questa è solo una delle possibili organizzazioni dello stesso materiale, ed è forse tra le più didascaliche: nel momento in cui si deve immaginare una sequenza di pagine racchiuse in un oggetto parallelepipedo, ricorrere a un ordine — per quanto esso possa risultare fallace — è inevitabile, come è inevitabile pensare che questa stessa organizzazione non torni del tutto, poiché alcuni testi sarebbero adatti anche a sezioni in cui non si trovano. Ma, l’ho già detto, non sono interessato a fornire una forma compiuta e indiscutibile di libro: nel momento in cui ho dovuto incanalare una certa materia, l’ho fatto in quel modo. Oggi, probabilmente, le cose andrebbero in maniera diversa e la materia sarebbe colta in un altro stato.

In che rapporto sono con il “senso comune” e con la logica?

Mi piace il senso comune perché è un indefettibile generatore di umorismo involontario. La logica mi piace quando chi la utilizza è consapevole del fatto che può funzionare solo nel campo da gioco che essa stessa crea; a patto, cioè, che sia chiaro che si tratta di un’impostura (o di un gioco, appunto, a seconda della prospettiva). Sia l’una che l’altra cosa — qualcuno li considera sinonimi — sono efficacissimi strumenti di cortocircuito: basta utilizzarli con rigore e il gioco è fatto. In alcuni casi è fatto il disastro. Dipende. Lo abbiamo visto.

Leggi il racconto Eterocromia di Carlo Sperduti pubblicato su questo sito.

Il linguaggio è molto misurato e controllato. Sembra quasi che la precisione delle parole sia un modo per evitare lo sgretolamento del contenuto. Qual è il tuo lavoro e la tua ricerca nella prosa?

Ci sono testi in cui il linguaggio non è così misurato (per esempio Le dispiace se registro la conversazione? e altri brani in cui saltano delle regole sintattiche) ma per il resto in Spostamenti, è vero, prevalgono la misura e il controllo, e questo perché, credo — ci sto ragionando mentre lo scrivo — se tutto fosse fuori controllo non sembrerebbe così fuori controllo, intendo dire che ci sarebbe una coerenza di fondo tutto sommato rassicurante e non un contrasto destabilizzante tra la misura del testo e i suoi contenuti, o meglio l’assenza o l’indifferenza dei suoi contenuti (sono un anticontenutista naturale che a volte scivola su dei contenuti e va bene così, non si tratta di avversione). È percorribile anche la strada inversa, l’importante è che qualcosa non torni. Non essere rassicuranti, ecco, sennò poi si finisce male e quelli pensano invece “bene”. E poi, forse, tutto questo controllo è più un’impressione che una realtà, o un istinto che mi sto gradualmente togliendo di dosso. Ti ringrazio per questa domanda perché non ho assolutamente idea di come rispondere, ci ho provato e sono caduto in contraddizione. Alla prossima.

Nel racconto “Diario intimo e sentimentale” metti a nudo le tue fragilità. Che rapporto letterario hai con i sentimenti e con la quotidianità?

Quel testo è composto da tre microdiari (casa e cucina, lavoro in libreria, attività online) che vengono mescolati senza soluzione di continuità per un paio di pagine. Il titolo è sicuramente ironico, ma anche letterale. Mi interessava trattare la minutaglia della mia esperienza quotidiana come qualcosa da campionare, con cui tentare un montaggio. È simile a un cut-up, ma i vari brani che ho giustapposto li ho scritti io, non sono andato a prelevarli altrove, e li ho scritti con l’intenzione precisa di farne quell’utilizzo. Insomma, è intimo e sentimentale pur essendo proprio l’opposto, o è meccanico pur essendo intimo e sentimentale. Mi è sembrata una buona alternativa alle formulazioni di pancia che di solito vengono adottate quando si tratta di narrazioni autobiografiche o di esplorazioni/esternazioni dei propri sentimenti (o dei supposti sentimenti altrui). Per rispondere direttamente alla domanda: ho con i sentimenti e la quotidianità, letterariamente parlando, lo stesso rapporto che ho con i temi sociali, le mele, la pornografia, la malavita, l’agricoltura, il clavicembalo, il colore giallo: m’interessano nel testo e per il testo, quasi mai quando sono l’argomento del o lo scopo del testo.

Il lettore deve avere un approccio enigmistico ai racconti oppure sono zone d’ombra che non vanno esplorate ulteriormente?

Non utilizzerei il verbo dovere, né nei confronti del lettore né nei confronti dell’autore, possibilmente nei confronti di nessuno. Io, che sono un lettore, prediligo attualmente la seconda opzione, quando leggo, che però correggerei: zone d’ombra che vanno esplorate insistentemente senza mai arrivare a. Pur vero che dipende dai testi, mi dirai, e infatti la mia risposta è parziale, molto parziale. Allora: mi sembrerebbe più adatto che il lettore di Spostamenti facesse quella cosa delle ombre e non quella cosa degli enigmi, ma chi sono io per sapere come vanno letti i miei testi? Di solito sbaglio, quindi mi sa che la risposta giusta è enigmi. Sì, vada per enigmi, a posto così.

Hai pubblicato diversi libri di prose brevi negli anni. È cambiato qualcosa tra il primo e l’ultimo?

Non riesco più a leggere mia grafia. E non capisco i miei testi. Anche quando non li scrivo a mano. Cioè sempre.
Continuando con gli scherzi, ecco di seguito due esempi: il primo tratto da una pubblicazione di quasi quindici anni fa e da una scrittura di quasi venti (anni fa); il secondo scritto ieri (e molto diverso — ? — a sua volta da ciò che vado scrivendo ultimamente).

In sordina, col pedale pigiato ad assicurare il feltro tra le corde e i martelletti, un do maggiore inaugura la sua esistenza in onde longitudinali. Dapprima timidamente; poi, pian piano, si fa più intenso sulla terza ottava, ancora in sordina.
Ecco però che inizia a battere con più convinzione i suoi tre tasti e subito le creste descrivono ampiezze maggiori e si dispongono su una serie di battute consecutive, schiave di una pulsazione a centoventi battiti per minuto. Si lascia andare, ormai sicuro di sé. Abbandona il pedale e picchia, si compiace tanto della sua pienezza che vuole esagerare, vuole far sentire a tutti che esiste. (…)

Che strana distanza dal mare che tengono gli occhi le camere e schermi più piccole onde o più grandi rispetto addormenta di fianco una villa una musica stessa in un film si può andare a trovarla per nome che porta una vita di stanza poi sempre a inventare parole per sempre a inventare parole finisce a inventare parole

Ecco invece due esempi di ciò che vado scrivendo ultimamente:

Questo sangue sempre a terra, la sua piccola profondità diffusa. Tutto dalla sua ferita.
Mi secca il continuo seccarsi sulle piante quando mi sospendo poco a lungo, le incrostazioni. Tutto per la sua ferita. Non si può nemmeno nuotare, i troppopieni così bassi — chi li ha? — e ripete vieni vieni vieni. Con tutta la sua ferita. Ma fammi passare di là voglio un asciutto che non ferro un bagnato odore piano ascolto i plitch. Di nuovo arrendo tutto dalla sua ferita e resta.

L’ipernominazione del giorno distrae lo sbadato, sbanda il distratto. Altrimenti detto.
Ci sono state lapidi, una collina filmica in file ordinate, una fossa un prete un discorso, il colletto bianco sotto un cielo grigio, l’immancabile albero poco distante sotto cui — fronde, qualcuno si è detto —, le prime gocce in rima con le lacrime, un lento calare, tonfi di fretta e granulosi a coprire. Tutto molto, insomma. Cioè a dire.
Adesso però è a casa, in un altro punto del tempo, si rende conto che il caffè tarda a salire. (…)

Il libro sembra potenzialmente infinito, ma poi termina. Come mai questa scelta?

Mi si stava bruciando la pasta nel forno.

Cosa vorresti rimanesse nei lettori dieci anni dopo averlo letto?

La vita?

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