Trama: Carla e Marco sono ormai consapevoli di vivere in un mondo fittizio creato dalla mente di Fiamma. Così ne esplorano le possibilità e scoprono che ovunque ci sono delle porte che permettono loro di spostarsi nella mente di Fiamma, entrando nei suoi pensieri e ricordi.
L’ultima porta è un precipizio nero. Poi Fiamma si sveglia.
Sviluppo: Clicca sui nomi in basso per leggere come ogni partecipante ha svolto il capitolo, partendo dalla trama.
I loro corpi nudi sono rivestiti di una sostanza nera, densa ed oleosa: a fare da contrasto c’è solo il bianco dei loro quattro occhi; sono sul 38 barrato, in una mattina di febbraio del 1977, corrimano levigati ed unti e la scritta “Supergabri bisex / Ramones” vergata con la punta di una chiave sul tavolino del bigliettaio.
Attraversano una porta viola ed eccoli seduti a gambe incrociate sulla moquette: giocano a Monopoli, e Simon Le Bon canta su MTV. Finiscono nella Stazione Nord. Boom! Sono, entrambi, nel corpo di Fiamma bambina che, sopra al due pezzi rosa con i bordi blu, indossa un grazioso prendisole bianco.
«Ma papà, io non voglio rimanere qui, voglio stare con te! E anche con Pallino!»
Peter si tortura il baffetto sinistro come fa quando è nervoso, e si accende una sigaretta. Sbuffa via il fumo. Fiamma ha visto altre volte quello sguardo, per esempio quella volta che mamma ha scoperto che ogni mattina lui prendeva la sua macchina con la tigre sul cofano e se ne andava al mare, anche se diceva che era al lavoro.
«Tesoro, prendi una bella conchiglia per il tuo papà.»
Fiamma corre, e il tiepido vento serale le incolla la camiciola di sangallo al corpicino ossuto. Con gli occhi verdi di Fiamma, i due gemelli vedono quel tramonto che pare proprio il rosso di un uovo al tegame.
Fiamma perlustra il bagnasciuga alla ricerca della conchiglia speciale per Peter, quel signore che la sta abbandonando in una colonia piena di mocciosi odiosi, sorvegliata da orrende suore baffute. La trova, la prende e corre verso la colonia, dove Peter la aspetta, in completo di lino bianco, davanti a un bicchiere d’acqua frizzante.
Ora che non sa di essere guardato, la sua espressione è un misto di noia e di angst (occorrono parecchie consonanti per descrivere le emozioni di quest’uomo). Quando vede la sua bambina corrergli incontro, i calcagni che quasi calciano il sedere magro, fa un sorriso da prima pagina.
«Meravigliosa, Fiamma… portamene un’altra», le dice, la conchiglia nella grande mano pelosa.
La scena si ripete altre volte, Fiamma è presa da quel gioco che allontana il momento in cui Peter metterà in moto la sua Jaguar, da solo. La quarta volta, quando Fiamma arriva trafelata al bar, la sedia di Peter è vuota, e le sue uniche tracce sono il posacenere pieno di cicche ed un bicchiere d’acqua mezzo pieno. Nero.
I fratelli sono davanti a una porta rosa deturpata da un brutto graffito di un cuore spezzato. La aprono, e non appena fanno un passo, precipitano in un vuoto blu cobalto.
In quanto pensieri e non veri e propri corpi nella mente di Fiamma, Carla e Marco avevano una certa libertà di movimento al suo interno tramite alcune porte. Per esempio, aprendone una, Carla ebbe la possibilità di rovistare tra i gusti musicali della madre, scoprendo che amava molto i Rolling Stones (nonostante avesse sempre dichiarato di preferire i Beatles), e provò a riadattarne un brano con il suo violino, manco fosse Andrew Loog Oldham; in particolare quello segnalato da un post-it come la sua canzone preferita del gruppo: Paint It Black. Marco si imbatté invece, aprendo un’altra porta, in un sogno in cui cadeva un aereo; grazie alla sua formazione in Fisica riuscì ad aggiustare il velivolo ed evitare l’incidente.
Oltre a gusti e sogni, erano presenti nella mente di Fiamma anche ricordi. Marco provò una profonda sensazione di rabbia quando trovò l’episodio in cui la madre era stata molestata durante un volo aereo, questa volta reale. Carla, invece, trovò in un’altra stanza accese discussioni tra Fiamma e i genitori, e in seguito un momento molto brutto in cui lei e Anita litigavano per via di un uomo. Ricordi di tensioni del genere erano tanti, anche riguardanti alterchi con parenti di cui non avevano mai sentito parlare, e quasi sempre si trattava di motivi molto futili.
Ma più in generale, tutte le scoperte che Carla e Marco andavano facendo erano per loro sorprendenti; la madre non aveva mai detto loro nulla di tutto questo. Anche la sua precedente professione di hostess, come risultava da quei pensieri e ricordi, era per loro del tutto sconosciuta. Ma, soprattutto, fratello e sorella cominciarono a chiedersi che senso avesse quell’esperienza che stavano facendo, e se non stessero in fondo sognando insieme lo stesso sogno (mantenendo così la speranza di essere soggetti pensanti piuttosto che pensati).
Ciononostante, continuarono a frugare nello strano posto in cui erano capitati. Qui trovavano i gusti culinari della madre, là altri ricordi della sua vita da hostess, più in là ancora scoprirono i teneri pensieri che Fiamma conservava per loro: erano stanze con luci e telecamere fisse su vari aspetti delle loro vite, anche quelli meno importanti, a significare un’attenzione e una cura costante che la madre aveva per loro. Tra le varie porte che andavano aprendo in quella direzione, convinti che si sarebbe sempre trattato di stanze con commoventi riguardi nei loro confronti, una si aprì su un precipizio nero, nel quale caddero urlando.
In quel momento Fiamma si svegliò.
DA INSERIRE
Si era assicurata che avessero le scarpe allacciate. Aveva tirato fuori dal bagagliaio le due automobiline rosse a pedali, li aveva baciati e li aveva guardati decollare sopra l’autostrada. Si era chiesta se non fosse il caso di piangere un po’. Aveva concluso che, se fosse tornata, avrebbe comprato due automobiline rosse, a pedali.
«Non ricordo se ho paura del niente», disse Carla.
Sentirono entrambi come un colpo di martelletto sul ginocchio sinistro, che li costrinse a mollare il pedale sinistro. Poi, un colpo di martelletto sul ginocchio destro, che li costrinse a mollare il pedale destro. Precipitarono in un profondissimo cratere nero dagli occhi verdi struccati. Le automobiline rosse a pedali, che non avevano sentito niente perché non avevano ginocchia, rimasero a guardare.
«Mi sono ricordata di aver paura del niente», osservò Carla, mentre qualcosa che somigliava ad una forza di gravità un po’ più stanca del solito continuava a tirarli giù.
«Io che non mi piace precipitare nel vuoto da un punto molto, molto, molto alto», rispose Marco, stupito.
Bisogna sempre riporre un’ultima speranza nelle porte. Soprattutto se di legno color noce, sul fondo di un cratere, e se da fuori tentano di ucciderti (un colpo di martelletto sull’alluce destro). Ne aprirono una e si trovarono in cucina. Non la loro, era una cucina un po’ più… esistente. Fiamma osservava suo nonno riparare un orologio da polso, e intanto gli chiedeva come fosse morto il pesciolino rosso.
«Non è successo ancora», rispondeva il nonno (un colpo sull’alluce sinistro).
Corsero verso la porta del soggiorno. Cumuli di neve, una busta enorme di cellophane blu come slittino in due e una caduta rovinosa come scusa per un bacio (voci che arrivavano dal cielo per svegliarla). Una porta in un abete. Si videro dentro un autogrill: caffè bruciato, cornetto surgelato ed un addio: un uomo la abbracciava (un ago forava la carne del braccio sinistro). Corsi fuori, si lanciarono sullo sportello di una cinquecento blu.
Un balcone al quarto piano, il vuoto, il freddo. Afferrarono al volo una finestra chiusa e si ritrovarono nel precipizio nero di due occhi verdi struccati che guardavano un soffitto bianco dal fondo di un cratere.
Poi, non si ritrovarono più.
Carla e Marco a volte si chiedevano chi dei loro genitori avesse deciso i loro nomi. «Ma che domande fai? Lo sai che decide tutto lei, è lei che dorme, lei che ci sogna, lei che ci crea.»
«Sì, ma poi siamo noi a scegliere quale porta aprire, quindi cosa vedere, cosa vivere.»
Carla e Marco avevano sempre scelto tutto seguendo le indicazioni della madre. Ma adesso si chiedevano se anche il padre fosse stato d’accordo sulle possibilità che gli venivano offerte. In fondo Biagio aveva avuto una sua vita reale e indipendente dai sogni della moglie e valeva la pena sentire anche la versione di lui e scegliere le porte da aprire nella testa di Fiamma, interrogando anche Biagio. Ma la vita non era sempre lineare e inevitabilmente Fiamma e Biagio avevano divergenze, e interrogare anche Biagio ora avrebbe complicato le cose. Da adulti, seppure frutto della fantasia della madre, ora potevano scegliere indipendentemente. Decisero allora di sfruttare il vantaggio di essere in due per vivere una cosa e il suo contrario.
«Tu aprirai una porta e io quella opposta», disse Marco.
«Va bene», rispose Carla, «però in tutta questa realtà non reale l’unica cosa che sento vera sei tu, mio fratello, e non voglio perderti. In fondo nostra madre ci ha creato insieme e, anche se solo nella sua fantasia, in quel momento era d’accordo anche nostro padre.»
Trovarono infine una soluzione: avrebbero preso strade diverse ma si sarebbero ritrovati sempre al bivio successivo di porte possibili e si sarebbero raccontati tutto. Così facendo ripercorsero la vita di Fiamma e di Biagio prima che tutto avesse inizio, prima del salto che aveva ridotto Fiamma in coma e che paradossalmente aveva dato inizio alla loro esistenza.
«Guarda che bella che era la mamma, e coraggiosa!»
«E invece il babbo, con quello sguardo triste… come avrà fatto a conquistarla?» «Comunque a noi ci hanno mandato una a Belgrado e l’altro a Glasgow! Va bene la tranquillità di Avezzano, ma i sogni di gloria li avranno avuti anche loro.»
«E adesso sono i nostri sogni e io non ci voglio rinunciare.»
«Dobbiamo tenere la mamma in vita… è complicato ma è una possibilità, come aprire queste porte.»
Le porte, e le possibilità, erano infinite? Sapevano che era Fiamma a creare le porte, perciò tutto dipendeva da lei. Però ad un certo punto doveva essersi confusa, doveva aver dimenticato di chiuderne una, come aveva fatto con il Regno dei Morti, e allora Carla e Marco si ritrovarono non più ad un bivio, ma su una specie di percorso obbligato. Fortuna che erano insieme, ma a quanto pareva questa volta non c’era scelta, non potevano tirare a sorte da che parte andare, perché c’era un’unica lunghissima strada che arrivava davanti ad un’unica porta, che dovevano necessariamente aprire insieme.
«Che succede?», chiese Carla preoccupata. Marco non fece in tempo a rispondere, perché Fiamma si era svegliata dal coma.
«Ma che diavolo sta succedendo?», chiede Marco a Carla.
«Non lo so, non capisco.»
«Ehi, stai attento!», urla Marco a un infermiere, invano.
«Oddio, ma quell’infermiere ti è passato… addosso?»
«Sì.»
«Ma che diavol-»
«Carla, forse ho capito.»
«Che cosa?»
«Siamo dentro Fiamma.»
«Eh?»
«Siamo dentro il corpo di zia.»
«Ma che cazzo ti sei fumato?»
«Guarda» gli dice, mentre va a sbattere addosso a un letto senza farsi male.
«Oh cazzo, ma che… che… che cazzo sta succedendo? Marco, siamo morti, cristo santo, siamo morti? È questo che succede quando si muore? Ero ricoverata qui? Perché non me lo ricordo? Ho fatto un incidente e sono finita in coma? Perché non me lo ricordo? Non ricordo niente, non capisco niente!»
«Carla, vuoi smetterla di urlare? Guarda qua.»
«Che cos’è?»
«Una porta. Entriamo.»
«Sì, ma vai avanti tu.»
«Dove siamo, Marco?»
«Non ne ho la più pallida idea. Attiva la torcia del telefono.»
«Ma che… ma questa è la casa di montagna del nonno!»
«Zia Fiamma sta… piangendo?»
«Ma quanti anni avrà?»
«Non lo so, ma quel cazzo di peluche manca anche a me.»
«Pure a me! Ma secondo te che significa?»
«Carla, siamo nella mente di zia.»
«Non dobbiamo più fumarci le canne, cazzo, te lo dico sempre.»
«Shhh, guarda. C’è un’altra porta.» E dopo averla aperta: «O Dio, ahhhh!»
«Che cazzo c’è? Marco? Marco? Dove sei, Marco?»
«Penso di essere caduto, ma non so dove.»
«Aspettami, arrivo.»
«Ehi, ma… perché voglio morire?»
«Perché, anche tu lo vuoi?»
«Oddio, zia ha provato di nuovo ad uccidersi? Ma quando?»
«Boh, forse quando era piccola. Io non me lo ricordo affatto.»
«Carla… lì c’è una luce.»
«E infatti poi non è morta.»
«Cretina. Andiamo.»
Marco si alza da terra e prova a seguire la luce quando, ad un tratto:
«Ahhhhh!»
«Cosa? Cosa?»
«Carla, stai indietro.»
«Marco, che cazzo hai visto?»
«I nonni… che scopano.»
«Povera zia Fiamma. È un trauma? Guarda meglio, nei traumi ci sono sempre altre cose.»
«Ci sono dei lupi, nella macchina di zia Fiamma. Ci sono dei lupi. Le stanno… sorridendo.»
«Ma anche zia Fiamma si faceva le canne, secondo te?»
E dopo un attimo di esitazione:
«Vedi altre porte?»
«No, ma sento un gran dolore al petto.» Marco scoppia a piangere.
«Anche… io.» Anche Carla scoppia in lacrime. «Dove siamo, Marco?»
«Penso nel suo cuore.»
«Perché?»
«Guarda.»
Un uomo con folti capelli ricci e un’aria da intellettuale li guarda sorridendo.
«Ma chi è?»
«Penso il mio più grande amore.»
«Il tuo cosa??? E da quand’è che sei gay?»
«Guarda quanto è bello.»
«Ma che cazzo ti prende? Fa vedere. O Dio… ma, è bellissimo. Sento di amarlo.»
«Esatto. Per questo ti ho detto che siamo nel suo cuore.»
«È il suo…»
«Il suo più grande amore.»
«E perché adesso sento un grande vuoto dentro?»
«Lo sento anche io… temo che questo amore non fosse ricambiato.»
«Ma cos’è che ci sta spingendo?»
«Allora lo senti anche tu?»
«Sì, c’è qualcosa che mi sta solleticando. Marco, che succede, perché è tutto buio?»
«Non lo so.»
«Marco, dove sei? Marco?»
«Carla, io sento che sto per…»
«Anche io.»
E un attimo dopo, dal balcone di quel maledetto appartamento:
«Mi butto, Franco.»
Dal letto di Fiamma si sentono dei lamenti.
«Si sta… dottore? Chiamate un dottore, si sta svegliando.»
Carla era pazza di gioia. Iniziò a saltellare euforica in modo incontrollato, sembrava una di quelle trottole che vanno avanti per inerzia, avrebbe potuto non spegnersi mai. Sprizzava energia da ogni centimetro di capello che le danzava come un uragano sulla testa. Mentre saltava, gridava: «Possiamo vedere quando siamo stati concepiti, possiamo vedere la faccia di nostro padre durante l’orgasmo!»
Marco si mise una mano in faccia e nel frattempo la guardava con occhi pieni d’amore e quasi gli scese una lacrima. Poi le andò incontro e l’abbracciò, la placò a fatica: «Calmati, calmati Ca’. Anche se è bellissimo vederti così… Ah, ah, mi ricordi quand’eri ragazzina.» Carla, nella stretta del fratello, sentì il suo amore e la rassegnazione, contro la quale urlò col fiato corto e la voce rotta dal pianto incombente: «Possiamo viaggiare tra i suoi ricordi, possiamo aprire le porte della sua memoria, ma noi non siamo che il frutto dei suoi deliri… noi siamo condannati a sparire…». «È vero, e l’abbiamo sempre saputo che saremmo dovuti sparire un giorno, ma oggi forse possiamo salvare nostra madre.»
Carla si strappò dall’abbraccio e, preda della disperazione, gridò: «Ma lei ci ha messo al mondo per morire, perché noi dovremmo salvarla?» Marco le prese la testa tra le mani e guardandola negli occhi le disse: «Noi siamo il prodotto della sua fantasia. Calmati e fidati di me.»
Trascorso qualche minuto di reciproco conforto fraterno, uscirono dalla cucina dell’appartamento di Carla nella periferia di Belgrado e iniziarono ad andare alla ricerca delle porte. Avevano scoperto che si nascondevano nelle cucine dei fast food. Iniziarono da quello sotto casa con l’insegna al neon “Alette Fritte Piccanti”, gestito da un bengalese. Si intrufolarono nella cucina rischiando di essere colpiti da una scopa lanciata violentemente. La porta sul retro li proiettò nella prima comunione di Fiamma, costretta in abiti chiericali e bacchettata dalla mamma al minimo sgarro. La scena li rattristò sufficientemente.
Corsero alla ricerca del fast food più vicino e scoprirono che a Bologna nel 1971 non esistevano ancora. Passarono alcune ore dannandosi, fino a capire che avrebbero dovuto raggiungere Zaandam, nei pressi di Amsterdam, per accedere al primo McDonald europeo.
La porta li proiettò in quello che capirono essere l’ultimo giorno di Fiamma prima del coma. Fiamma era sull’orlo di una terrazza romana e teneva in braccio un peluche. Si avvicinarono a lei e guardando verso il basso notarono l’insegna di un KFC. Capirono di dover raggiungere al più presto il retro del locale per tentare di salvarla.
Tutto era più chiaro ora, per Carla e Marco. Porta dopo porta, ricordo dopo ricordo, un pensiero si fece nitido: per Fiamma ogni momento bello si trasformava in un momento triste; per questo si era tuffata nel vuoto. Per esempio, quella volta in montagna mentre fissava le vette innevate sorseggiando una birra chiara, rivelò prima stupore, poi gratitudine. Subito dopo tristezza, dovuta a quel pensiero, che l’uomo non è meritevole dell’incanto della natura in quanto non la rispetta.
Oppure quella volta, quella porta, in cui Fiamma era in macchina mentre ascoltava musica ad altissimo volume e cantava a squarciagola le sue canzoni preferite, ammirando le margherite bianche che crescono ai bordi delle autostrade. Osservandole, fu colta dal pensiero che riescono a crescere anche dove non c’è cura né condizione. Quella poesia che lei vedeva in ogni cosa, quel romanticismo che condiva ogni sua esperienza, la portava sempre a cadere nel baratro di un’insana malinconia.
In quel ricordo, Carla e Marco videro tutte le fragilità della loro mamma. I due, attoniti ma curiosi di saperne di più, continuarono ad aprire tutte le porte e furono sempre più tristi nel vedere che Fiamma aveva più volte cercato di chiedere aiuto per quello che, ormai, era un evidente disturbo depressivo unipolare. Chiese aiuto anche poco prima di saltare. In una porta minuscola, alla fine di un lungo corridoio dai colori intensi e decisi, c’era il ricordo di una conversazione avvenuta poche ore prima con la proprietaria del bar sotto il palazzo dal quale Fiamma si era tuffata.
«Cosa prende?», disse la donna sorridente. «Un caffè corretto al cianuro», rispose lei, con l’ironia celata che l’aveva sempre contraddistinta.
A quel punto, la signora del bar chiese a Fiamma il perché di una frase tanto cupa, ma non fece nemmeno in tempo a terminare la domanda che lei scoppiò in un pianto dilaniante. Si lamentò, perlopiù di tutte le caratteristiche del suo carattere che non le piacevano, in modo arrendevole. Poi, poggiò la mano sinistra su quella della signora, mentre con l’altra fumava in modo nervoso gli ultimi tiri di sigaretta.
Fiamma tirò un lungo sospiro e disse: «Grazie per avermi ascoltata, le do un abbraccio: il mio ultimo abbraccio. Se lo merita, perché mi ha ascoltata senza giudicare né cercare di consolarmi».
Così si alzò, pagò il caffè non corretto, e salì le scale del palazzo che aveva già scelto per il volo. Improvvisamente Carla e Marco furono catapultati nell’ultima porta, così sprofondarono anche loro.
Il corpo di Fiamma si mosse come preso da una scossa, le palpebre tremavano fintanto che gli occhi si aprirono. Finalmente qualcuno aveva scoperto il suo segreto. Poteva ricominciare a vivere una vita nuova.
Essere, o non essere, questo è il problema…
«Non essere, problema risolto. Non ci siamo!» disse Carlo.
Morire, dormire…
nient’altro, e con un sonno dire che poniamo fine
al dolore del cuore e ai mille tumulti naturali
di cui è erede la carne:
«Ma quale carne, non abbiamo carne!»
Morire, dormire. Dormire, forse sognare.
«È un sogno di morte quello di mamma, secondo te?»
«È Amleto, Marco. E mamma è in coma! Finché parliamo non è morta! E noi siamo vivi, più o meno.»
Non è facile andare avanti sapendo di non esistere; tutto perde di senso, di scopo, di prospettiva. Pensavano alle loro famiglie, Carla e Marco, che non esistevano, alle loro finte carriere, ai sogni di una donna che non li aveva generati dalle viscere, ma dalla mente, e aveva regalato sogni, aspirazioni, desideri che stavano sfumando. Perché adesso si ritrovavano a vagare senza meta nella mente di Fiamma, cercando indizi, vie di fuga, speranze di sopravvivenza. O forse solo la fine dell’illusione.
«Andiamo in camera di mamma!», disse Carla. Erano ancora nella casa di Avezzano, immaginata per loro da Fiamma.
«Perché?», chiese Marco.
«Per cercare una via d’uscita! Per provare a vivere davvero, se si può!»
Si ritrovarono davanti alla porta della camera della madre, la aprirono e tutto era come in un quadro di Escher, con scale in ogni dove che salivano e scendevano e porte in fondo ad ogni rampa. Puntarono una porta rossa. Muladhara, c’era scritto. Aprendola, trovarono Fiamma: aveva sei anni, i genitori le avevano tolto le rotelle dalla bicicletta e lei andava su e giù per il cortile con agilità, finalmente stabile sulle due ruote.
Chiusero la porta e puntarono alla seguente, quella arancione. Svadhisthana. Fiamma stavolta era in teatro e stava recitando l’Amleto al saggio delle superiori.
«I sette chakra…», mormorò Carla. «Quella viola, cerchiamo quella viola!»
Si guardarono intorno, ma non la videro. Andarono verso la porta verde, il chakra del cuore: forse da lì avrebbero trovato una risposta, ma aprendola, c’era solo Fiamma ventenne che si faceva tatuare il nome “Biagio” sul costato, mentre una mano stringeva la sua. Richiusero anche questa.
Guardandosi intorno, finalmente la videro: la porta viola si trovava all’incrocio di due rampe, messa per orizzontale. Sahasrara, c’era scritto.
«Perché hai puntato la porta viola?», chiese Marco. Nella sua voce, il timore di ricevere una risposta.
«È il settimo chakra, la connessione con la nostra spiritualità più profonda, in un certo senso con la vita eterna!»
Carla si fece coraggio ed aprì. Contrariamente alle aspettative, si ritrovarono nel vuoto, su un pianerottolo di cristallo, con una porta nera davanti e le parole BLACK HOLE scritte in caratteri argentei a brillare nel buio. Si girarono indietro, ma la porta viola era scomparsa.
«Voglio uscire da qui!», urlò Marco, mentre Carla aprì la porta nera.
I due si ritrovarono a precipitare dal settimo piano di un brutto palazzo dell’EUR, in una giornata di pioggia, ma prima di toccare terra un suono stridulo risucchiò via l’immagine.
In un letto di ospedale, Fiamma apriva gli occhi e, inspirando sonoramente e dolorosamente, tornò al di qua della morte.
Seduti su una panca di legno, Carla e Marco guardavano in direzioni opposte, rispettando la cadenza e i colori dei loro vaneggiamenti.
Perché non possiamo dire che fossero proprio pensieri.
Anche quello che passava loro per la testa – sempre che di testa si trattasse – aveva acquisito una consistenza inclassificabile, alla pari del loro starenellamentedellapropriamadre, che non si può, in effetti, classificare come esistenza.
«Hai pensato al tempo?», ha chiesto Marco, fissando le processonarie che scendevano dal tronco di un albero e seguivano in fila lungo un prato squisitamente verde.
Aspettando senza fretta la risposta della sorella, si chiedeva se la scena bucolica esistesse davvero. Avrebbe chiesto conferma alla madre. E la situazione gli sembrò ancor più astrusa.
«In che senso?», ha risposto distratta Carla, alle prese con un cartone animato degli anni ’70 proiettato su una TV a tubo catodico.
«Cioè Marco, noi siamo qui da una vita, da tutta la vita. Anzi mi chiedo a questo punto, più che al tempo, hai pensato allo spazio? Facciamo due passi, va, che mi sto annoiando.»
«Cosa hai visto?»
«Un cartone animato, degli orsi che sembrano scimmie, non ho capito. Tu?»
«Delle processionarie.»
Alzandosi, hanno intravisto una porta minuscola in fondo alla camera in cartapesta nera.
L’intera struttura era costruita con materiali variegati. Stanze in muratura ampissime e senza finestra davano su lunghi corridoi in terracotta, che si affacciavano, da entrambi i lati su bagni ingemmati, sgabuzzini in polvere, giardini in vetro che si aprivano, a loro volta, su vetrate sfavillanti.
I due avevano tentato di percorrere in lungo e in largo tutto l’edificio, che per sua intrinseca proprietà si svelava sempre più vicino all’infinito.
E questo, Carla e Marco lo avevano capito da un po’.
«Qua non ci passiamo», ha fatto lui trovandosi davanti a una porta alta quanto il palmo di una mano.
«Svegliati, Marco. È di cartapesta. Mamma lo avrà fatto apposta.»
E con un calcio ha aperto la fessura sulla parete, entrando prima del fratello nella stanza ancora sconosciuta.
A loro non importava molto che non fossero mai nati o che esistessero solo nella testa della madre.
Avevano avuto abbastanza tempo per essere scioccati, disperati, arrabbiati, compiaciuti di sé.
Da quando l’avevano capito, passavano parte della giornata a ripercorrere i vissuti, i desideri e le emozioni di Fiamma, dove spesso c’erano anche loro.
L’altra parte la dedicavano a cercare di uscire da lì, perché la speranza che tutto ciò fosse uno strano sogno non li aveva mai abbandonati.
La stanza sembrava non avere fine. Loro non sapevano come definirlo, e noi ancor meno ci proveremo.
Diciamo soltanto che era senza misura.
E questa assenza di aggettivi valeva anche per i colori, per la consistenza, per i suoni che correvano o non correvano dentro.
Solo un indefinibile sentimento di pienovuoto li accomunava.
Non c’era il tempo, e se ci fosse stato, non sarebbe stato percepibile.
In un dato istante, quello sì molto preciso, quasi fosse un pugnale, hanno sentito:
«Mi dispiace. Venite con me.»
E Fiamma aprì gli occhi.
Non era mai stato così doloroso ritrovarsi al suo capezzale. Le infermiere gettavano sguardi quasi affettuosi, benevoli, noncuranti di loro, come se non ci fossero o fossero trasparenti. Erano in realtà trasparenti. Non sapevano nulla di medicina, risvegliarla era impossibile. Ma poi… davvero volevano? Carla si guardò intorno in cerca di un’idea, per aggrapparsi alla speranza di continuare ad esistere, e le sfiorò la fronte con la mano.
Si ritrovò in una camera da letto ampia, con i mobili scuri, stile Chippendale, e vide una nuvola di capelli rossi, ricci, su una figurina esile di una decina d’anni che giocava con una bambina più piccola. Poi si voltava e la chiamava entusiasta: «Anita, guarda cosa ho trovato.» La riconobbe: era Fiamma, che inventava sempre nuovi giochi con la sorella. Aveva trovato dei fiammiferi, che accendeva con improvvisa maestria, facendo cerchi e giravolte con il debole fuoco. Anita era ammaliata ma gelosa e voleva provare anche lei. Quando finalmente ci riuscì, volle superare la sorella e, per fare un fuoco più grande, lo avvicinò alla poltroncina foderata di crine, che prese subito fuoco. Fortuna che arrivarono i nonni a spegnere l’incendio e a sgridare le bambine, anche se Anita incolpò Fiamma. Lei non glielo perdonò.
Carla cercò lo sguardo di Marco e lo invitò a sfiorare la mano della mamma insieme a lei. Si ritrovarono nella vecchia scuola di Avezzano, con le finestre severe e i muri spessi. Seduta al primo banco, Fiamma — inconfondibile con la sua nuvola di ricci rossi — stava disegnando, mentre la maestra scriveva alla lavagna. D’improvviso alzò il foglio davanti a sé e tutta la classe rise della caricatura della maestra. Lei si girò stizzita, mentre Fiamma riponeva di scatto il disegno. Troppo tardi: la maestra cercò subito il corpo del reato per accompagnarla dalla preside, che stavolta non la perdonò e chiamò i genitori.
Ora Marco aveva capito. Sorridendo riconoscente a Carla, sfiorò gli occhi della mamma, invitandola a fare altrettanto. Eccola per strada, Fiamma, che inconfondibile si distingueva tra i compagni per i suoi ricci rossi. Acerba ma già sinuosa, si muoveva nella marea della manifestazione cittadina. Andava da un gruppo all’altro, con il megafono. Poi rideva e urlava slogan, e tendeva la mano a questo ragazzo che l’abbracciava felice. Ma chi era? Non era certamente loro padre. Dopo qualche isolato entrarono in un portone e Carla non voleva davvero seguirli. Il corteo continuava… ma che fine avevano fatto? Eccoli che correvano. Raggiungevano il corteo. Ah, meno male!
Carla e Marco si guardarono complici e sollevati: l’onore era salvo. E ora, se avessero messo una mano sul cuore — pensarono — dove li avrebbe portati Fiamma? Intrecciarono le loro dita e si avvicinarono al cuore. Ma a quel punto Fiamma aprì gli occhi, e davanti a loro si aprì solo il buio di un pozzo senza fine.
Marco sentì un calore salire lungo la schiena e un’emicrania scoppiare come una bomba. La testa non era la sua, però. L’emicrania era esplosa nella testa di sua sorella Carla.
«Prendete una di queste. Starete meglio» disse zia Anita, porgendo a Carla una scatola di Tachipirina. Non è l’effetto collaterale più comune del paracetamolo, ma in un istante, dal giardino della vecchia casa di famiglia, si ritrovarono seduti sul sedile posteriore di una vecchia Fiat Panda. Non faticarono a riconoscere la testa calva di Biagio. Calva sì, ma più giovane. Accanto a lui, la chioma rossa e riccia inconfondibile di Fiamma.
Rimasero in silenzio, gelati dalla scena che si stava consumando davanti ai loro occhi.
«Lo sapevo. Non bisogna mai accettare pillole dagli sconosciuti», bisbigliò Carla.
«Ma ce l’ha data zia, la Tachipirina» rispose Marco.
«A maggior ragione non avremmo dovuto accettarla. La nostra è una famiglia disfunzionale, come tante. Ma come poche è in grado di crearti casini nella vita. Un giorno sei lì, a trovare parcheggio ovunque serve, e il giorno dopo ti ritrovi nel retro di una Panda dell’87 a vedere tua madre che palpeggia tuo padre con “7 Seconds” di Youssou N’Dour in sottofondo.»
«Non ti piace Youssou N’Dour?» chiese Marco.
«Mi piace il primo Youssou N’Dour» rispose sua sorella.
«Ah, come Vasco.»
«Cioè?»
«A tutti piace il primo Vasco. Il secondo Vasco non piace a nessuno. Come se un cantante non fosse una cosa sola nel tempo.»
«Non sono d’accordo, ma sei un genio! Zia ci ha dato la chiave per riconnettere il nostro passato e il nostro presente attraverso la mente di nostra madre. Siamo un tutt’uno, e la Tachipirina è la chiave.»
«Sicura?» chiese Marco.
«No. Ma prima che papà riesca a sbottonare il reggiseno di mamma, io un tentativo lo farei.»
Ingoiata la pasticca, il sedile della Panda si trasformò nella dura sedia della V F. Davanti, una bambina dai capelli rossi e occhi gonfi fissava le sue mille lire di pizza bianca strette in mano dalla compagna di classe.
«Me la immaginavo proprio così, Giselda», esclamò Carla.
«Come fai a sapere che è Giselda? Ah! Ok. Sì, sì, è Giselda» si rispose subito Marco, vedendo la bimba dai capelli rossi spezzare il femore della compagna con un calcio secco.
Durò sedici pasticche il viaggio nella mente di Fiamma, finché, con le ultime due compresse nella scatola, Carla e Marco si ritrovarono sul tetto del palazzo dell’anagrafe, a Roma. Un posto singolare, se non fosse che la loro madre si era appena gettata nel vuoto per morire e capire se davvero Fiamma fosse un nome di merda, come aveva sempre pensato.
«Carla, ma tu ci stai capendo qualcosa?» chiese Marco.
«Certo. Tutto chiaro. No, non è vero. Non ci sto capendo nulla nemmeno io. Ma a questo punto non resta che mandare giù le ultime due e vedere che succede.»
«E se cadessimo in un precipizio nero?»
«No. Non sarà così.»
E invece fu proprio così.
Carla e Marco caddero in un precipizio nero. Quando toccarono terra, il silenzio fu rotto da un bip ritmato, a cadenza regolare.
Bip… bip… bip…
È frustrante essere una creazione, capire che ogni mia azione è il risultato dell’inconscio di una pazza suicida, che tra l’altro credevo fosse mia madre. Questa consapevolezza mi rende folle.
Conservo un angolo del mio cervello, sano e lucido, in cui so che tutto ciò che ho vissuto è il delirio di una sconosciuta.
Io sono Marco e Marco è Carla, siamo la stessa materia, partorita da un coma. Noi però vogliamo vivere e decidiamo di sfidare questa genitrice inconsapevole.
Io, Carla, oggi vado a lavoro, il lavoro che mi ha creato lei, con il mio bel maglione di cashmere blu. Ha scelto lei il colore, in ricordo probabilmente della divisa delle suore da cui andava da bambina.
Solo che sotto il mio bel maglione blu, scelgo di non indossare nulla. Neanche una mutanda. Voglio farla vergognare, voglio che nel suo sogno Fiamma provi una vergogna tale che neanche dieci anni di psicoanalisi basterebbero a sanare. Saluto i miei colleghi e quando il loro sguardo scende al di sotto dei miei fianchi, all’altezza dei miei genitali, sento il cuore che inizia a martellare: è la vergogna di Fiamma. Il suo pudore è il mio orgoglio, il mio grido di autonomia.
Mi siedo alla mia scrivania, accendo il pc ma non trovo le mie solite cartelle. Sullo schermo c’è invece una bambina, con lo sguardo basso. Affianco a lei una suora urla. Non sento quello che le dice, ma la bambina ad un certo punto smette di parlarle, inizia a piangere. Stringe un dito contro la gonna lunga. Fiamma è mortificata, è piccola e mortificata. Non avrà neanche sei anni. Spengo il pc.
Alzo lo sguardo e vedo Marco per strada. Divento Marco. Ora sono lui e sto passeggiando con la cara zia Anita. Ma perché limitarsi a passeggiare quando posso irritare Fiamma?
Decido di gattonare in questa stradina alberata, sono vestito da tigrotto, mi rotolo sul dorso, faccio le fusa alle passanti un po’ interdette, mi struscio contro qualche tronco, poi inizio a correre. Zia Anita mi segue con lo sguardo ed è innervosita dal mio comportamento. Mi ferma l’odore dei cornetti del forno e sulla vetrina intravedo riflessa la piazza centrale di Avezzano: c’è una tardoadolescente lì, che fissa un tardoadolescente, che fissa delle tardoadolescenti.
Lei ha l’aria innamorata, lui l’aria interessata. Lei è vestita da sposa. Provo pena per Fiamma, stavolta.
Sulla piazza di Avezzano inizia a colare vernice bianca, Fiamma scivola, ora è lei ad essere senza mutande e sta partorendo, siamo forse noi a nascere? I medici sembrano agitati. Io, Fiamma, Marco e Carla, sentiamo tutti la stessa agitazione, uniti stavolta, davvero fatti della stessa materia.
Una fitta, per tutti e tre. Un buio improvviso. Ora è silenzio. È l’ultimo ricordo prima del salto. Il primo del risveglio.
All’inizio ci fu un tempo indefinito. Il nulla. Poi, Carla aprì gli occhi e urlò un si bemolle per 20 secondi buoni mentre veniva accecata da una luce bianca.
Mettendo meglio a fuoco, vide che si trovava in una piccola stanza totalmente bianca, senza porte e finestre. Solo una sedia, una lavagna con un labirinto disegnato a pennarello nero ed un punto rosso con scritto “Voi non siete qui”, e un cancellino magnetico. In alt,o a destra, la scritta: «Uscita (forse)».
Mentre cercava di capire cosa significasse tutto questo, sentì una voce nella sua testa. Quella di suo fratello.
«Che vogliamo fare?»
«Marco?»
«Chi altri dovrei essere? Dove sei?»
«Davanti a un labirinto.»
«Io invece ci sono dentro.»
«In che senso?»
«Nel senso fisico del termine. Giro, giro, e non trovo l’uscita. Sembra che non ci sia.»
Carla prese il pennarello e cominciò a tracciare linee. Nessuna portava fuori dallo schema.
«Vacci piano» – fece il fratello – «mi stai facendo girare in tondo.»
«Perché?»
«Stai tracciando delle linee?»
«Come fai a saperlo?»
«Perché ogni volta che scrivi le mie gambe si muovono. Ma arrivo sempre di fronte a delle porte chiuse.»
Carla ebbe un’idea.
«Sei davanti a una porta, adesso?»
«Sì, perché?»
Carla prese il cancellino ed eliminò una riga. Poi proseguì il percorso con il pennarello in direzione dell’uscita.
Dall’altra parte, la porta davanti a Marco si aprì. Si ritrovò in una classe delle elementari, dove una bambina piangeva e veniva rimproverata dalla maestra per un brutto voto. Aveva boccoli rossi e grandi occhi verdi. Con un certo pudore, Marco uscì dalla classe e si ritrovò nel labirinto.
Davanti a Carla, lo schema si cancellò e si ridisegnò da solo. Sempre senza sbocchi. Nuovamente, tracciò una riga fino a un vicolo cieco e cancellò quella riga che teneva la porta chiusa.
E Marco si trovò di fronte a sua madre dodicenne, che aveva bagnato i suoi jeans entrando nella pubertà. Uscì di corsa dal bagno e si ritrovò ancora nel labirinto.
E così, schema dopo schema, reset dopo reset, Marco, guidato da un pennarello ed un cancellino, attraversò centinaia di porte, attraversando ogni dispiacere, ogni trauma, ogni lacrima di sua madre, fino ad arrivare a quel maledetto giorno in cui tutto si era fatto troppo difficile da gestire per lei.
E quando Carla cancellò l’ultima linea, una parete della stanza bianca si aprì e i due fratelli si ritrovarono insieme, mentre la lavagna e il pennarello svanirono e la parete si richiuse. Sulla parete opposta, apparve una porta disegnata a mano.
Con uno sguardo d’intesa, Marco guidò la mano della sorella e insieme iniziarono a cancellare la porta.
Quando scomparve, dall’altra parte apparve un buio immenso, totale, prepotente, che iniziò a risucchiare ogni cosa, loro compresi.
Provarono per un attimo a tenersi le mani, sorridendo, prima di sfumare in nero.
Poi, un grido acutissimo sgorgò dalla bocca di Fiamma.
Carla e Marco se lo ripetevano di continuo, come fosse un assurdo ritornello: tutta la loro vita era solo la proiezione mentale di Fiamma, la madre in coma. Per verificarlo, cominciarono a fare cose senza alcun senso, gesti folli che, in una realtà “normale”, avrebbero causato danni o almeno stupore. Carla si mise a lanciare bicchieri dal balcone, convinta che prima o poi l’avrebbero fermata. Nessuno si lamentò, né vetri rotti né liti coi vicini. Marco, dal canto suo, iniziò ad attraversare la strada senza guardare, incrociando auto che rallentavano sempre un istante prima di investirlo. Era come se l’universo fosse programmato per aggiustarsi di continuo.
«Allora è vero» concluse Carla con un brivido. «Viviamo in un sogno e lei ci sta proteggendo.»
Marco annuì pensieroso.
Proprio durante una di queste bizzarre “prove di realtà”, scoprirono la prima porta. Stavano rovistando in soffitta, cercando altri oggetti da distruggere, quando un vecchio baule si spostò da solo, rivelando uno spiraglio con una minuscola maniglia. Aprendolo, si ritrovarono in un soggiorno d’altri tempi, dove riconobbero Fiamma bambina che chiacchierava con una donna dai capelli rossi. Un ricordo vivo e pulsante, come un film in diretta.
Da allora, trovarono una moltitudine di porte: dietro la libreria di Anita, dentro un armadio dimenticato, persino sotto il tappeto del soggiorno.
In uno di questi passaggi, Carla e Marco si ritrovarono nella cucina dell’infanzia di Fiamma, tra pentole smaltate e profumo di salsa di pomodoro. In un altro, comparvero a una sua festa di compleanno adolescenziale, con musica anni ’80 e risate ancora limpide. La sensazione era spiazzante: si sentivano contemporaneamente ospiti e guardoni, spettatori di un film che riguardava la loro stessa madre. E più si addentravano, più porte sbucavano da corridoi e anfratti, in un labirinto di memorie dense di colori e sospiri.
«Ti rendi conto?» bisbigliò Carla, «Siamo dentro la mente di mamma, e lei neanche lo sa.»
«Siamo vivi solo perché ci sta ancora sognando.»
«Guarda, un’altra» disse Carla, indicando un pesante portone scuro apparso all’improvviso in corridoio. Era enorme, privo di serratura o pomello. Marco spinse, e si aprì su un abisso nero che pareva non avere fondo. Provarono a tirarsi indietro, ma l’uscio cedette di schianto sotto il loro peso e in un secondo si ritrovarono in caduta libera, catapultati nel buio con un urlo strozzato.
Nell’istante stesso in cui i loro corpi sprofondavano in quel vuoto, Fiamma sussultò nel letto d’ospedale e spalancò gli occhi.
Dal laboratorio Scritture Aperte
C’è vita su morte
Questo capitolo fa parte di un’ipotesi di iperromanzo dal titolo provvisorio “C’è vita su morte”, scritta durante il laboratorio Scritture Aperte 2024-25. In ogni incontro viene assegnato ai partecipanti un punto di inizio e un punto di fine e ognuno scrive la propria versione liberamente. Il risultato è un multiverso: ogni capitolo racconta un punto di vista diverso, un universo possibile della storia.
