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Tentativo di osservazione di un luogo romano

Parole girano Sweet station Lodi, Lodi station sweet, station Lodi sweet, station sweet Lodi.
Arco luminoso 1: Lodi. Arco luminoso 2: Station. Arco luminoso 3: Sweet.
Sotto rumore di cucchiaini che girano caffè.
Accanto agli archi quattro luci sopra il piccolo edificio, tre di luce sparata
Oltre un palazzo al buio. In cima una terrazza con luci in fila che la percorrono.
Luci di macchine prima chiare, poi rosse. Tutto percorre un arco, una curva, un giro. Ruote di macchine e ruote di motorini. Rumori: motori auto, autobus, motorino, moto, silenzio.
Rumore da destra lontano, vicino davanti, a sinistra lontano.
Oltre gli archi semaforo verde e nugolo di luci rosse che si allontanano e disperdono. Due passanti sotto l’ultimo arco. Uomo e donna, lei ride. Ragazzi attraversano la piazza // suona due volte un camion dell’Ama dall’altro lato. Luci gialle lampeggiano. Un «ouh» scomposto da una macchina con finestrino aperto.
Poi una macchina sportiva grigia bassa, con lampo rosso sulla fiancata come un fulmine, sfreccia.
Solo Lodi.
Piazza Lodi station sweet.
Una sirena lontana di un ambulanza, silenzio e poi dietro: lì la via si apre con due enormi pali sui quali sono fissati dei cartelli con un uomo nero che attraversa le strisce su un fondo bianco. La strada immensa, larga, a due corsie. Da un palo all’altro strisce bianche dividono la piazza dalla via che si srotola di palazzi alti e ai lati file di macchine parcheggiate, in unica processione sul lato destro, a spina di pesce sul lato sinistro
Il 16 sale dalla via grande e curva verso un palazzo antico, rosso e bianco di balconi e finestre anch’esse curve tranne tre sorrette da colonnine greche. Sotto, accanto al portone, una vecchia cabina telefonica senza porte, ma con telefono di metallo curvato e tondeggiante che brilla ogni volta che viene illuminato dai fari delle macchine.

N. 7 autovetture ferme di fronte a me. Al secondo posto vernice blu leggermente scrostata sul cofano di una Peugeot. Proprio qui invece, accanto a me, ghisa, metallo pesante, fonderia Pisano Salerno. Liquami.
Un uomo alto con la maglia blu attraversa di fronte alla mia visuale, incurante del pericolo. Pietre a pavimentare la rotonda, quadrati, rettangoli, trapezi, triangoli e radici sotterranee di erbacce quasi secche a tenere unita la geometria.
In alto una finestra sopra “Lodi station sweet” e luci tonde soffuse che spaccano il nero intenso del cielo notturno.
Suoni alle mie spalle, ronzio di bici e un vuoto che il mio pensiero non riempie.
Birkenstock. Le mie. Dentro le scarpe aperte un piede segnato dall’abbronzatura di chi per un estate non ha visto il mare.
Passi, lacci bianchi che forse non ci sono ma che io immagino pur nella loro assenza.
Una busta al braccio di un uomo in monopattino, senza volto e senza voce.
Foglia secca, colore cangiante tendente al marroncino/verde.
I lacci per la verità erano neri.
Strumento tecnologico a sostituzione del tabacco, di colore rosso chiaro. Fumo, non di combustione.
Lampioni curvi come a portare il peso del tempo e dell’inquinamento. Piccole pietre nell’asfalto emettono riflessi sotto la luce calda dei curvi lampioni.
Benzina che brucia, calore di marmitte, gomme al suolo che tracciano percorsi verso casa, verso il lavoro, verso un amore che aspetta.
Vita verde arrampicata al bordo bianco della rotonda su cui siedo.
Rumore di clacson alla destra, mezzo pesante dal suono anonimo, contenente uomini e odori di fluidi corporei.
Manovra difficile per un grosso SUV. Numero di targa e carrozzerie che sfregano lasciandosi tracce del passaggio l’una sopra l’altra.
Odore di caffè che resta lì, raccolto dietro una saracinesca in chiusura.
Non c’è spazio, ma il pilota parcheggiante insiste sprezzante di ogni geometria.
Marmo rotto figlio di urti del passato e un casco bianco a protezione del tutto.
Come una cartina geografica le crepe di una buca si diramano al centro della via, mentre il peso di auto che passano ne accentuano i confini instabili.
E sotto ancora fluidi, liquami, ghisa di fonderia. Ore 21.03 prospettiva sud-est, bussola a SE 122,2°, fine osservazione.

Dettagli toponomastici di una visione esclusivamente frontale con leggerissima rotazione della testa e senza nessuna attività o movimento.
In terra, davanti ai miei piedi che calzano delle Adidas verde acceso c’è un tombino di forma quadrata con piccole losanghe in rilievo. Materiale: ferro? Colore: bronzato.
Il marciapiede che costeggia la rotonda centrale è formato da tanti pezzi di cemento di forme irregolari e termina in un cornicione di marmo da cui si erge un ciuffo di erbetta che sembra essere stata più volte schiacciata. Infatti la parte verde del ciuffo appare ripiegata come esausta sul marciapiede.
Oltre il marciapiede inizia la strada. Motorino, macchina, macchina, macchina, macchina, macchina, motorino, bici, macchina, motorino, macchina, motorino, macchina, macchina macchina, motorino, macchina, macchina, motorino, macchina, macchina. Non riesco ad attra/ – due bici, macchina, motorino, macchina – attraversa/ – macchina, monopattino, macchina, macchina, macchina, macchina, macchina – attraversare con lo sguardo.
Forme: Tre archi luminosi incorniciano l’ingresso di un bar. Tra un arco e l’altro delle applique luminose e poi, ancora sopra, tre faretti. Tutto sembra dire: qui c’è un bar.
Suoni: Una ragazza dice «Ciao», il suono del casco che si allaccia. Passa una carretta, dentro un uomo indossa uno smanicato catarifrangente. Il suo sguardo segue il profilo della rotatoria. Una macchina rossa, parcheggiata in doppia fila. Ora cammina a marcia indietro, poi si ferma. Lodi station sweet è il nome del bar. La macchina rossa si infila nel traffico e va via.
Tre archi grandi e uno più piccolino fanno da sfondo alla piazza e le macchine dalla rotatoria sfrecciano verso di là e sono come inghiottite da queste enormi bocche.
Suoni: Dal finestrino di una macchina un tizio grida «AÒ».
Un uomo alto in maglia scura attraversa la strada e si siede accanto a noi.
I fari di una macchina ci illuminano in pieno.
Orizzonte: diverse luci disposte come satelliti. Sono in difficoltà a causa della mia miopia.
Suoni: un’ambulanza dietro le mie spalle.
Fauna: quattro alberi, forse un quinto. No, che dico, uno degli alberi è un cespuglio di oleandro, si capisce dai fiori rosa acceso, visibili anche al buio.
Umanità: il tizio del bar chiude le tende con un lungo bastone a manovella. Un altro porta dentro un tavolino. Un ragazzo e una ragazza sono seduti e chiacchierano gesticolando – più lui che lei, in realtà. Cinque di noi stanno appiccicati alla rotatoria, guardandosi intorno.

Ci sono tre semafori, ognuno con un colore diverso. Questa sincronia fa sì che la fila di macchine si allunghi dietro di me a sinistra, lì dove la Panda verde ha abbassato il finestrino per inveire contro la 500 rossa che prova a immettersi nella rotonda.
I semafori sono piazzati ciascuno in una diversa direzione della città. Quello verde, che però tra un po’ scatta, è proprio davanti a me e con una velocità sostenuta si arriverebbe in cinque minuti alla basilica di san Giovanni. Il semaforo si vede bene, anche se ostacolato dalle erbacce che salgono rigogliose dalle aiuole in salita, sui due lati della piazza che è anche la rotonda appena lasciata alle spalle dalla Panda verde che, nel frattempo, dopo essersi guardata furtivamente allo specchio, ha anche abbassato il finestrino. E si avvia, a seguito della 500 rossa, verso il lato non proprio opposto ma anteriore al primo semaforo, che si trova sulla destra, circa 500 metri dopo gli archi degli acquedotti romani, o quello che ne resta. E considerando il tempo passato ne resta un bel po’, nonostante i graffiti dipinti sui muri adiacenti, quelli del bar costruito – chissà se abusivamente – qualche decennio fa. Anche se riprende le mattonelle a vista in terracotta, come gli acquedotti, non riesce a trarci in inganno. I tanti cartelli stradali appesi all’acquedotto indicano anche una promiscuità urbana che da queste parti non mette paura: frecce a destra e a sinistra, omini disegnati di nero su sfondo bianco cerchiato di rosso.
Il terzo semaforo si trova nella parte opposta, forma un triangolo invisibile con al centro la piazza, con al centro un monumento, con al centro qualcosa di incomprensibile.

Lodi Station Sweet, un’insegna luminosa che incornicia le tre vetrine del bar di fronte a me, con i tavolini sul marciapiedi e alcune persone sedute fuori che sorseggiano un tardo aperitivo.
Sul palazzo soprastante una bella terrazza con griglie che la circondano, illuminate da decine di lucine appese, ma non si vede nessuno muoversi, pare non ci sia nessuno.
Alla sinistra del bar un albero dalle bacche nere, non perché veda le bacche nere da così lontano, ma perché qualche sera fa, mentre andavo al corso di scrittura, ho visto un uomo – forse un bengalese o comunque di quell’area asiatica – che ne coglieva le bacche. La cosa mi aveva incuriosito. La notazione sulla razza dell’uomo è dovuta al fatto che non avevo mai visto una persona del nostro paese raccogliere questo tipo di bacche. “Chissà che ci farà?”, mi sono chiesta. Ero stata tentata di avvicinarmi e chiederglielo, ma poi ho continuato. Dopotutto ero in ritardo, sono spesso in ritardo io.
Due ragazzi sono in piedi, davanti al bar Lodi Station Sweet, uno indossa una felpa blu ed uno una maglietta verde. Quello con la maglietta verde giocherella con qualcosa che tiene in mano e ci guarda, mentre l’altro smanetta al telefonino. Il ragazzo con la maglietta verde continua a guardarci, fa un cenno al suo amico, gli dice qualcosa e adesso anche l’altro ci guarda, anzi direi che cominciano ad osservarci. Eh beh, ora che ci penso, è normale che siano incuriositi: ci sono sette adulti seduti sul muretto della rotonda al centro della strada, tutti a scrivere e a guardarsi intorno. Uno al computer, una che scrive su dei fogli poggiati sulle gambe (io), gli altri che scrivono sul telefonino, una in piedi di spalle al bar, un altro in piedi di faccia al bar, tutti intorno al muretto che costeggia la grande aiuola della rotonda, da cui straborda una pianta infestante dalle piccole infiorescenze bianche pelose. Tutti affiancati l’uno all’altro. Be’, mi sarei incuriosita anche io al posto loro e mi sarei messa ad osservarli dei tipi simili.
Improvvisamente passa un’auto che porta sul tettuccio, accatastati, ben quattro materassi grandi, dei quali uno comincia a scivolare giù! Me li ha fatti notare Stefano, grazie Stefano, queste sono le chicche che la strada sa regalare ad un osservatore curioso. Sarebbe stato un peccato se me la fossi perduta perché chinata a scrivere il mio esercizio! Mi viene da pensare “altro che l’India!”, di cose come queste se ne vedono anche qu, e la follia o la creatività delle persone non ha limiti, se si ha il coraggio di darle spazio.
Auto che passano, motorini, monopattini, bici Glovo, uno dietro l’altro, uno accanto all’altro, ma anche il cielo non è da meno: circa tre aerei solcano il cielo sopra di noi nel giro di venti minuti.
Torno sulla terra. Un grande albero di fronte a me, alla destra del bar, copre un bel palazzetto anni ’40/’50 direi, con ampie finestre incorniciate da una vernice più chiara. L’albero è proprio grande e mentre il mio sguardo sale per seguirlo, una luce nel cielo segnala il passaggio di un aeroplano.
SCAR … SCAF? MOODER … ma sarà una R o una F? al di là di questo dilemma poco amletico non capisco comunque la scritta che un anonimo, dallo scarso spirito artistico, ha sentito il bisogno di tracciare sul muro a destra del bar, proprio accanto al palazzetto bello, quello quasi interamente coperto dal grande albero.
Torno a scrivere, chinata sulle mie bellissime scarpe rosse a punta con un cuore trafitto, e sento il rumore di un autobus passarmi davanti, ma quando alzo gli occhi è già passato e, di fronte a me, osservo quattro amici davanti alla Lodi Station Sweet. Uno è seduto e tre sono in piedi intorno a lui, due donne e un ragazzo che chiacchiera, gesticolando animatamente, con il tipo seduto. Mi piace il suo modo di gesticolare, è originale nei suoi movimenti e mi rende simpatico questo ragazzo che vedo solo di spalle o giusto di sbieco. Poi l’uomo seduto si alza, è un signore di mezza età dall’andatura scanzonata. È molto alto, dice qualcosa al ragazzo simpatico che sovrasta con la sua altezza e poi entra nel bar, da solo. Credo vada a pagare mentre gli altri lo aspettano fuori, poi li raggiunge e tutti si allontanano sorridendo e chiacchierando, verso gli imponenti archi romani sulla sinistra che sovrastano a loro volta l’uomo alto, il bar e persino la bella terrazza illuminata. Adesso riesco a vedere meglio il ragazzo simpatico e mi accorgo che non è un ragazzo, ma un uomo fatto. Mi aveva tratto in inganno la sua altezza e anche il suo bizzarro gesticolare.
Il mio sguardo torna al bel terrazzo illuminato sopra il bar, ma al di là delle lucine nel terrazzo e delle luci alle finestre non si vede ancora nessuno.
Festa delle offerte PRIME recita un manifesto luminoso, seguito dall’immagine del cachemire di Falconeri e subito dopo, con un intervallo di una manciata di secondi, dal Rome Film Fest. Poi arriva Chiquita, coi suoi colori fucsia, giallo e azzurro di un pop squillante. Passi per la Chiquita e Falconeri, che debbono trasmettere una sensazione, ma il Rome Film Fest: come si fa a leggere qualcosa in quei pochi secondi?
Mi soffermo adesso a osservare intorno alla rotonda, al cui centro rimango, seduta sul muretto, una gran commistione di stili architettonici: il bar moderno Lodi Station Sweet, con tre archi di neon che sottolineano le tre vetrine arrotondate, quasi un gioco di rimandi con i grandi archi romani in mattoni rossi sulla sinistra, che delimitano il passaggio dal quartiere Pigneto a San Giovanni. Attraversando la strada, sulla destra, un elegante palazzetto rosso pompeiano in stile classico con tocchi eclettici ha balconi, trifore e decorazioni bianche sopra le finestre e i porticati. Al cancello d’ingresso esterno, poi, sui due pilastri, ci sono due aquile direi, ma da questa distanza non sono certa – il mio astigmatismo mi lascia sempre un che di indefinito – e una bandiera italiana pende dal balcone – chissà, allora si tratta di un edificio pubblico? Continuando, seguendo la rotonda nella stessa direzione, c’è un palazzone moderno squadrato e anonimo, privo di decori o balconi, solo pieno di finestre allineate, tutte in riga, una sopra l’altra, tutte con le loro brutte serrande in plastica pesante. Continuo il giro e oltre al grande stradone che parte dalla rotonda, con i due grandi semafori appesi in alto, trovo un bel palazzo dalle grandi vetrate che mi ricorda un po’ le stazioni vittoriane. Amo le grandi vetrate così luminose e non so perché ma mi viene in mente la stazione ferroviaria di Bombay, che tanto mi era piaciuta, con il suo mix di vittoriano e puramente indiano insieme. Curioso che abbia pensato all’India in fatto di stile vittoriano invece che a Londra… chissà… forse perché in fondo, in quanto colonia, finisce come sempre per essere più vittoriana della madrepatria, o forse sarà il riverbero nella mia testa di quei materassi accatastati sull’auto, qualche minuto fa.
Mi colpiscono sempre queste eccentriche soluzioni, queste sfide al “si dovrebbe” o “non si dovrebbe”, mi divertono e magari mi danno una speranza, più della pubblicità su un autobus di passaggio sulla dog therapy per bambini. E mi sembrano decisamente più artistiche della scultura moderna al centro della rotonda, composta da due lastre rettangolari strette e lunghe, di travertino chiaro, che racchiudono in mezzo un’anima di rame inverdito dal tempo.

Ruote, luci in movimento, casco su essere umano su due ruote, macchine parcheggiate, lampione accecante, fermata d’autobus in lontananza, erbaccia sul marciapiede, tombino con scritta “BO” ruotata di 180 gradi, garzone con bottiglie da riportare in cucina, bancone con dolci ormai secchi, tre materassi sul tetto di una macchina, una bicicletta, un cartellone pubblicitario cangiante, un palazzo con un balcone del 18° secolo incastrato tra due palazzine degli anni ’60 che lo schiacciano in un abbraccio cattivo, un santone in monopattino, una foglia secca smozzicata. Buche, buche ed ancora buche. Dietro di loro un omino bianco stilizzato che passeggia in uno sfondo blu, il quale comunica con il suolo attraverso una staffa in alluminio, un rumore di marmitta che si allontana, risate che si accompagnano al tintinnio di un bicchiere, un monumento o forse un pezzo di cemento conficcato per errore al centro di un’aiuola, un paio di scarpe rosse con un cuore sulla punta, il riflesso di un faro sul cerchione di un’automobile. Una scritta sbavata sopra un muro. Una pianta rinsecchita che copre la visuale dell’acquedotto, il lamento di una cinghia di trasmissione, una terrazza illuminata che si intravede dietro un palazzo. Una pizza che sta per essere consegnata a chissà chi. Frammenti di musiche diverse in assolvenza e in dissolvenza. Il pavimento sotto i miei piedi è fatto di pietre incastrate e cementate tra di loro, a mò di puzzle. Un cicalino che avverte di prestare attenzione al movimento di un cassonetto da parte del camion dei rifiuti. Lo stridere delle gomme di una macchina che sta tentando inutilmente di parcheggiare in un posto troppo piccolo, seguito dallo strusciare del suo parafango con la carrozzeria della macchina parcheggiata davanti. Un brevissimo istante di silenzio, seguito dal passaggio di altre automobili. I tavolini di fronte che uno ad uno scompaiono, ingoiati dal bar. Una sirena che dura quanto il rosso di un semaforo. La scritta “taxi” che appare bianca e scompare rossa. Il graffio sullo sportello di un guidatore di una macchina color crema. I portabagagli quadrati di una moto Enduro, rumorosissima, seguita dal ronzio di un’auto elettrica. Un’altra sirena, questa volta più lunga, che cerca di divincolarsi dalla costrizione delle altre auto. Due lampeggianti blu che scompaiono mentre quel suono si affievolisce. Una bandiera scolorita che non si solleva per la totale assenza di vento. Due omini stilizzati che si vengono incontro, a tre metri di altezza. Due aquile che non voleranno mai. Una transenna. Il 16 che si allontana. Un paio di scarpe da ginnastica bianchissime che attraversano la strada quasi volando. Un albero che fieramente oltrepassa il confine di cemento che qualcuno ha voluto mettergli davanti. La sagoma di un cuoco sopra il bar. Una cabina telefonica, chissà se funzionante. Un pezzo di asfalto illuminato davanti alla fermata del bus.

Ispirati da Tentativo di esaurimento di un luogo parigino di Georges Perec, abbiamo fatto un esercizio di osservazione, per mezz’ora, di un luogo pubblico romano. Gli osservatori hanno cercato di catturare ogni dettaglio di Piazza Lodi nel tempo di osservazione. Dato il tempo breve non si può parlare di “esaurimento” del luogo, come nel testo di Perec, ma in compenso lo sguardo si è articolato su più punti di vista simultanei.
Esercizio del laboratorio annuale Scritture Oblique 2023-2024.

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